GIOCARE È UNA COSA SERIA

La notte fra il 23 e il 24 agosto 2016 il centro Italia è stato sconvolto dal primo terremoto che porterà a quello distruttivo, magnitudo 6, del 30 ottobre.
Lo scenario che è apparso il giorno dopo è simile a quello di un bombardamento. Case sventrate, strade ridotte a cumuli di macerie. Nulla è più come prima.

“La nudità esposta”, ogni oggetto, ogni guscio intimo, se non è andato distrutto è mostrato al mondo, senza più pudore. Letti, vestiti, tazze, giocattoli, fotografie, libri: i beni sparsi fra le macerie, i ricordi più cari esposti allo sguardo di tutti.
Quando la terra smette di tremare, si fanno i conti: 283 i morti, 40.000 gli sfollati fra uomini, donne e bambini.
Alcuni paesi, come Pescara del Tronto, non esistono più.
Vite spezzate, famiglie distrutte.
I sopravvissuti devono fare i conti con ciò che resta.
E se per un genitore ciò che conta è aver messo in salvo i propri figli, per quegli stessi figli, per quei bambini, cosa è più importante?
Un’infanzia serena, fatta di gioco, scuola, pomeriggi con gli amici. Tutto questo è “Ieri”.
L’oggi è un presente carico di paure.
Eppure, qualcosa si è salvato.
Un bambino resta tale anche nella tragedia più dura. E’ il gioco a salvarlo. Quel “facciamo finta che” capace di farlo sognare.
Cosa hanno salvato del loro passato? Cosa resta a ricordar loro i giorni sereni ?
Una bambola, una copertina, un pupazzo, una macchinina….
Quella notte hanno messo in salvo il loro bene più grande.
Mentre la terra tremava e tutto intorno era buio e spaventoso, le loro manine hanno stretto ciò che dava fiducia.
“Giocare è una cosa seria, anzi tremendamente seria”, lo diceva Johann Paul Friedrich Richter.
E noi attraverso quel gioco vogliamo raccontarvi la storia di questi bambini e delle loro famiglie.
Perché che sia una bambola, un pupazzo, una copertina, una macchinina poco importa. E’ parte dei loro giorni felici, quelli che, grazie all’attività degli operatori de “L’Albero della Vita”, a un anno da quella terribile notte, sono tornati a vivere.

SAI TENERE UN SEGRETO?
Mano a coppa vicino alla bocca, Ambra, 7 anni e mezzo (a quel mezzo ci tiene molto) rivela di aver rubato qualche conchiglia di quelle che papà usa per fare i suoi “pupazzi”.
Papà Carlo è un falegname, e prima del terremoto l’attività andava a gonfie vele. Buona parte delle case di Pretare possedevano qualcosa creato dalle sue mani.
La moglie, Katarina, produceva formaggi, latte e yogurt di capra.
Ma la notte tra il 23 e il 24 agosto il loro mondo è crollato.
Da allora Carlo e Katarina non lavorano più. Sono ospiti alla Domus Mariae, certo, e Ambra piano piano è tornata a sorridere, ma “un uomo non ha bisogno solo di mangiare e dormire” e Carlo me lo dice con uno sguardo triste. Per passare il tempo e per provare a racimolare qualche soldo, da un po’ di mesi a questa parte costruisce pupazzetti fatti di conchiglie: cani, gatti, koala.
Oggettini bellissimi che prova a vendere, ma con poca fortuna perché il costo per esporre i propri oggetti è alto.
Carlo e Katarina cercano di non portare a passeggio Ambra per la città: hanno paura che veda un giocattolo, un vestitino o che chieda un gelato. I soldi, per gli “extra”, non ci sono.
Ambra di tutto questo non sa nulla: lei sorride e gioca con il suo bambolotto, un cicciobello al quale è molto legata ma che non ha un nome anzi, mi dice, “oggi si chiama Niente”. Niente: come quello che è rimasto a questa famiglia dopo il terremoto. La casa è collassata su se stessa e non c’è stato più modo di rientrare per prendere qualcosa: abiti, ma è il meno dice Katarina, foto, giocattoli.

Ambra guarda in su, verso quella che era la sua cameretta, sorride dolce e mi dice “mi piacerebbe tornare li, o anche alla mia roulotte, mi mancano le mie cose”. La malinconia dura un attimo però: corre verso l’albero di ciliegie del giardino di mamma e papà, ne raccoglie qualcuna e le trasforma in orecchini: si sa, non servono giocattoli costosi per far volare la fantasia.Con gli educatori dell’Albero della Vita ha imparato di nuovo a sognare e a guardare la natura con un po’ meno timore: certo, ha ancora paura dei rumori improvvisi, perché la notte del terremoto rimbomba ancora dentro, però è tornata a correre per i prati, a raccogliere fiori, legnetti e sassolini per comporre piccoli quadretti.

La strada è ancora lunga: Ambra, papà Carlo e mamma Katarina aspettano che venga assegnata loro una casa e, soprattutto, di poter tornare a una vita normale, dove un gelato e una passeggiata domenicale non sono momenti da temere, ma da gustare.
Una nuova casa, fatta di legno: quello stesso materiale che Carlo sa lavorare così bene e che, ironia della sorte, ora non verrà maneggiato da lui.
Perché le imprese che se ne occupano non offrono lavoro alle persone del posto.
Così Carlo continua a raccogliere e lavorare conchiglie e ad aspettare che, finalmente, torni il sereno.

I LEGO TERREMOTATI

Andrea costruisce case.
Andrea costruisce case con i geomag, una sorta di lego magnetico.
Ci gioca ogni giorno, dopo quella notte.
Costruisce case immaginarie, le smonta e le rimonta, con una forma sempre diversa perché, dice, devono poter ospitare tutti: mamma, papà, cugini, nonni, amici e anche il gatto, che non ha, ma non si sa mai.
I Lego, quelli normali, le sue costruzioni fatte assieme a papà, sono rimaste in casa.
Quella stessa casa che è una delle poche rimaste in piedi ma comunque inagibile.

“I miei lego terremotati”, li chiama lui.
Mi porta a vederli. Sono crollati a terra dalle mensole, e sono scomposti in mille pezzi.
Insieme ai lego, piatti, tazze, bicchieri, foto di famiglia. La lavastoviglie è ancora piena, nessuno
è
tornata a svuotarla.
Nelle case rimaste in piedi, il senso di vuoto, di inatteso, se possibile, è ancora più grande.
Tracce di vita vissuta, di quotidianità sospesa.
Andrea mi dice che l’unica cosa che vuole davvero è tornare a casa, e giocare con i suoi lego insieme agli amici, ma tranquillo. Sottolinea. Tranquillo.

Tranquillo è l’esatto contrario di come appare il padre di Andrea, Paolo.
Paolo è un muratore: si muove fra il giardino di casa e l’orto, irrequieto.
Guarda al di là dell’inferriata, dove stanno costruendo le casette di legno.
Ironia della sorte: le costruiscono proprio davanti a casa sua.
Hanno detto che verranno pronte entro luglio, ma Paolo non ci crede. Vorrebbe dare una mano, vorrebbe lavorare, lui che casa sua se l’è messa su da solo, ma non può.

Vorrebbe poter costruire la casa che ospiterà lui e la sua famiglia, ma c’è un’impresa che va a rilento e non offre possibilità neppure a chi potrebbe davvero fare la differenza.
Nel suo sfuggire a me, alle fotografie, agli sguardi, si vede tutta l’angoscia di un uomo costretto a stare con le mani in mano.

Cristina, sua moglie, è il sorriso della famiglia. Lei è una resiliente, una di quelle che a partire dal 24 agosto,si è data anima e cuore per il suo paese.
Ha aperto casa a tutti quelli che una casa non l’avevano più. Certo, dentro non ci si poteva dormire, ma almeno l’acqua c’era, e i più anziani potevano trovare un po’ di refrigerio e non dormire in auto, o nelle tende roventi.

Cristina ha cucinato per tutti, si è data senza risparmiare nulla. Ha riscoperto la vicinanza di un paese, ma soprattutto l’aiuto vero quello che viene da chi non ti aspetti.
Mi dice che qualcuno l’ha fatta anche sentire in colpa per la sua “fortuna”: del resto tu hai casa ancora in piedi! Ma lei mi spiega che forse è anche peggio. Perché sa che li dentro, non ci tornerà più. Perché arriverà una ruspa che con morsi lenti distruggerà ciò che è rimasto.

Eppure Cristina, nonostante tutto, ama il Vettore. Quella montagna imponente e meravigliosa, sotto la quale Pretare si distendeva, piccolo borgo caratteristico dell’entroterra marchigiano.
È il suo posto questo, e ci vuole tornare. Sorride Cristina, sorride davvero, con gli occhi.
Ed è la sua energia che contagia anche Andrea, e Paolo, perché anche loro, nonostante la paura,
vogliono tornare.
Tornano almeno una volta a settimana al paese, lo “vivono”, lì dove possono.

Insieme: è la parola magica. Ad un anno dal disastro, mi dice Cristina, la loro vita è cambiata certo, ma si è anche riempita di persone meravigliose: I ragazzi dell’Albero della Vita, che hanno seguito Andrea aiutandolo a “uscire dal guscio” dove si era rinchiuso, a dare un nome alle emozioni, a capire che ciò che viene distrutto si può ricostruire anche più bello e grande di prima.
E poi i Vigili del Fuoco, i ragazzi della Protezione Civile, i volontari arrivati da Modena ad aiutare… volti, nomi, persone sconosciute fino a ieri che sono arrivati sino a qui, in questi piccoli borghi, per dare una mano, perché insieme è più facile.

TORNARE ALLA NORMALITÀ

“lo non ho paura di niente!”
Samuele, il più piccolo dei quattro fratelli, procede spedito verso la porta di casa.
“Io non ho paura di niente, però puoi darmi la mano?”
La mamma mi racconta che Samuele da quella notte fatica a dormire: si sveglia di soprassalto al minimo rumore, Beatrice invece di giorno è tranquilla ma di notte tutte le paure tornano a turbare il sonno.
Attorno a noi tutto è abbandono: un fermo immagine.
Oggetti rovesciati, polvere, macerie, tegole cadute, l’erba alta, il dondolo arrugginito.
Il giardino di casa ridotto a una fotografia sbiadita di ciò che è stato.

L’allegria dei bambini fa a pugni con ciò che ci circonda. Si arrampicano su un albero, Beatrice porta con sè Geronimo, il pupazzo preferito, una delle poche cose che è riuscita a salvare.
Cucinare, sedersi attorno a un tavolo, arrampicarsi sull’albero preferito, mangiare le scorte di miele che papà tiene nella roulotte, andare a scuola, tornare a casa da lavoro.
Una vita normale, la quotidianità: ecco cosa manca a Roberta e Alessandro, i genitori di quattro
ragazzi stupendi.

Dal 23 di agosto vivono in albergo, alla Domus, ed è dura. Non c’è più una parvenza di intimità, di privacy. Se all’inizio la condivisione ha aiutato a superare il trauma e la paura, ora è diventata una negazione della libertà.
Beatrice ha 13 anni, uno sguardo adulto e un sorriso sbarazzino.
Quella notte si è svegliata per prima: avrebbe voluto urlare, dice, ma non le usciva il fiato.
Così ha fatto l’unica cosa che le sembrava sensata, ha svegliato i fratelli, li ha aiutati a vestirsi e poi è corsa fuori, insieme a mamma e a papà.
Roberta e Alessandra, i genitori, mi dicono che forse il trauma maggiore l’hanno subito gli adulti.
Sono loro che fanno i conti con la realtà di tutti i giorni: la paura maggiore è il futuro.
Si, perche i ragazzi vogliono tornare, in qualche modo la loro fantasia, la naturale positività, li spinge a pensare che tutto riprenderà come prima. Ma il paese che conoscevano è scomparso, al suo posto sorgeranno casette di legno, provvisorie, così come provvisoria è la loro vita da un anno a questa parte.

Eppure, nonostante questo, Roberto e Alessandra trovano la forza di reagire.
Mi dicono che questa esperienza sarà di insegnamento per i figli, che le difficoltà insegnano, che ciò che è accaduto in qualche modo sarà una lezione di vita.
Ci salutiamo parlando del futuro: Beatrice deve scegliere che scuola fare.
È brava a disegnare, e vorrebbe fare il liceo artistico, ma ha paura che nella vita non le servirà.
Le sorrido e le dico di fare esattamente ciò che sente, ciò che desidera, che la vita è imprevedibile e non sappiamo mai dove ci condurrà.
Già: la vita è imprevedibile. Un momento prima hai una casa, un rifugio sicuro e d’improvviso tutto cambia. Non so se Beatrice studierà arte, se andrà avanti a disegnare, è brava, me lo dice anche Luca, uno degli educatori dell’Albero della Vita, che con lei ha lavorato fianco a fianco un anno per aiutarla a sconfiggere la paura. Una cosa la so però: Beatrice ha già pagato il suo debito con la vita e da ora in poi lei e la sua famiglia meritano che sia tutto in discesa.

CIUCCIO E CAMOMILLA

Stella sta dormendo.
La testa reclinata sul seggiolino dell’auto, i ricci biondi scomposti, il ciuccio in bocca: è l’immagine della serenità.
Mamma Romina e papà Lucio l’hanno attesa a lungo. E’ stata una bimba fortemente voluta ed oggi è il suo futuro a preoccuparli di più.
Casa è inagibile: non tanto per i danni subiti, quelli pare siano riparabili, Spelonga, il paese dove viveva questa famiglia, è forse quello che ha subito meno danni.
Il vero problema è il rudere a fianco alla loro abitazione che minaccia di crollare da un momento all’altro distruggendo ciò che incontra sul proprio cammino.
Era pericolante già prima del terremoto, ma ora è come imploso riversando una quantità di terra e macerie che arriva sino davanti alla porta di casa.

Romina e Lucio stanno tutt’ora impazzendo fra mille pratiche burocratiche per far sì che il rudere venga smantellato e cominciare così qualche lavoro che potrebbe mettere in sicurezza casa loro.
Quella stessa casa finita di ristrutturare appena due anni prima del terremoto.
Dicono che non ci sono i mezzi, così rispondono i Vigili Del Fuoco.

Eppure le escavatrici non mancano, le vediamo a lavorare a pieno ritmi in questi borghi ormai disabitati. E’ la burocrazia, quella che rallenta le cose, che non permette alle famiglie di tornare a vivere nei loro paesi, quella stessa burocrazia che promette le nuove casette in legno da mesi
ma che ancora non consegna.

Romina comunque non è arrabbiata: lei e il marito appaiono sereni, solo, ecco, un po’ stanchi.
Stanchi perché non hanno riposo: dalle prime notti in auto, alla tenda condivisa insieme a Enza e famiglia, anche loro di Spelonga, per finire poi in Hotel.

Mentre finiamo di parlare Stella si sveglia: papà la prende in braccio e la porta fuori casa.
La bambina appare turbata. Certo si è appena svegliata, ma non è solo questo.
Romina mi spiega che a 4 anni e mezzo è una bimba già molto consapevole.
Capisce quello che è accaduto e quel posto ora, le fa paura. Quello stesso prato davanti casa, dove raccoglieva insieme a nonna la camomilla da far essiccare, e che, ironia della sorte, profuma l’aria intorno a noi, ora è un luogo spaventoso. Stella non vuole camminare: per tutto il tempo resta in braccio a papà e poi a mamma, non alza lo sguardo verso la casa, piuttosto si concentra su una girandola che le porge papà, e poi su un fiore. Non guarda verso casa Stella: quando è a San Benedetto, al sicuro, in hotel, scherza sul terremoto: salta sul letto, e mentre il materasso trema lei urla e ride e dice “mamma mamma, guarda, il terremoto!!!”.
Ma li, dove è successo, non c’è spazio per il gioco.

Quattro anni e mezzo sono troppo pochi per avere paura della vita. A quell’età il mondo deve essere una festa di scoperte e nuove sensazioni, di giochi spensierati e coccole dei genitori.
Ma a Stella la terra ha tremato sotto i piedi, anzi, come dice Romina, ha “fritto”, e da allora non è più lo stesso.
Ha promesso a mamma che butterà il ciuccio quando la porteranno a casa, che scaverà una buca e ce lo butterà dentro, ma ora no, è presto, Stella ha ancora bisogno di sentirsi al sicuro.

Quando ci salutiamo Romina mi dice che in fondo questa esperienza è stata qualcosa di importante, è sicura che per Stella, un domani, sarà qualcosa di formativo, che la aiuterà a superare le difficoltà.
Ora però è tempo di tornare nell’unico posto dove si sentono davvero al sicuro: una stanza d’hotel e il parco dove Stella gioca con gli altri bambini e gli educatori dell’Albero della Vita.
Se qualcosa di positivo c’è stato, mi dicono Romina e Lucio, sono gli incontri con le persone che dopo quella maledetta notte non li hanno mai lasciati soli.

Li guardo andare via e penso che mi piacerebbe esserci quando Stella scaverà una buca e sotterrerà il ciuccio, una volta e per sempre, insieme a tutte le sue paure.

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